Friday, June 22, 2007
ECCE ROBOT cronaca di un'invasione

Uno spettacolo di Daniele Timpano
ispirato liberamente all'opera di Go Nagai
una produzione di Amnesia Vivace

All’interno della folle genialità che contraddistingue la persona e l’artista, Daniele Timpano, si muove, in una schizofrenica interpretazione delle puntate salienti dell’assai più che noto beniamino di un’intera generazione, quella che all’oggi ha un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, Mazinga. La calda voce fuori campo di Marco Fumarola scandisce i ‘tempi televisivi’ e informa sul minutaggio che resta allo scadere dello spettacolo. Le puntate doppiate in tutti i suoi personaggi da Daniele in pre-produzione sono interpretate dallo stesso sul palco, il quale, caratterizza in una posa fissa i differenti personaggi, sottolineandoli con una luce diversa per ognuno. La stesura drammaturgica di Timpano è come al solito impeccabile, la sua maestria di scrittura tanto quanto autoregistica gli permettono un linguaggio semplice e diretto, decodificato nel segno nel tono e nei tipi. Tutto ciò permette allo spettatore, una comprensione completa e inoppugnabile, senza che mai corra il rischio di scambiare ad esempio che so: Dottor Inferno con Shiyro sebbene voce e interprete siano, come ho già detto, i medesimi. Il mio stupore iniziale risulta essere solo relativo, almeno per la prima parte dello spettacolo, al mio faticare nel rintracciare la persona dietro i personaggi, l’artista infatti, generalmente, usa le sue numerose stravaganze personali, come cifre stilistiche dei suoi lavori.
La struttura dello spettacolo alterna alle puntate di Mazinga Z, il racconto di Timpano dell’invasione culturale nipponica iniziata il 4 aprile 1978 in seno a mamma RAI, inesorabilmente proseguita dall’allora fininvest (noncurante del malcontento genitoriale) e completata dalle innumerevoli reti locali. In men che non si dica, i bonari personaggi partoriti da Carosello vengono soppiantati da una valanga di violenza a buon mercato disponibile ad ogni ora nei differenti palinsesti. Il racconto della situazione socio culturale che ne deriva viene intramezzato dai ricordi relativi all’esperienza personale dell’autore. Lui stesso dipinge il quadro di se/solo in compagnia della vivace e accogliente TV. Prende posizione riguardo alla stampa di quel periodo, agli errori di valutazione nell’attribuzione di colpe rispetto alla valenza diseducativa di quei prodotti, e soprattutto prende le difese di un genere bistrattato, demonizzato e strumentalizzato. Le parti informative e narrative dello spettacolo risultano essere a mio avviso prolisse, non raggiungono la tensione che invece padroneggiano le altre (le puntate di Mazinga Z) e sebbene dalle prime traspare una preparazione teorica rispetto all’oralità assolutamente strutturata, quest’ultima, non risulta bastante. Un prodotto intelligente esilarante e valido in cui a volte, sporadicamente, l’attore mal si incastra nella matematica partitura, dando luogo a piccoli ritardi che sporcano ‘la macchina’.
Io appoggio la tesi di Timpano, la violenza scaturita dai quei cartoni non è superiore alle battaglie con i soldatini, e , cosa più importante, non è pericolosa perché relativa ad un ambito quale il gioco e circoscritta a quello. Gli innumerevoli bambini fratturati nel lanciarsi vicendevolmente i componenti sono vittime solo e soltanto della disattenta sorveglianza dei propri genitori tanto presi da questioni teoriche o personali al punto di dimenticare l’incidenza di una carezza mancata. Sono una trentenne come Daniele Timpano sono cresciuta a pane e alabarde spaziali e la persona che sono non è solo e soltanto relativa a ciò che la TV mi ha propinato e in che modo. Viva la violenza di Daitan 3, l’erotismo soft di Lady Oscar, l’incesto di Giorgie e l’irriverenza maleducata di Gigi la Trottola. Non Vi è stato possibile toglierceli all’epoca e non vi permetteremo di farlo né ora (all’età di trent’anni) né mai.
Gio'-rgia.
 
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Friday, May 25, 2007
Il 'Sogno' del Teatro Ateneo


Studio e messa in scena del
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

Mi vedo costretta a premettere delle cose.
Questa non è una recensione, è semplicemente un flusso di pensieri idee fastidi e ‘illuminazioni’ relativi all’esperienza che io ho vissuto in tutta la sua interezza, dalle 20, 50 alle 01,00 circa, della serata tra il 24 e il 25 maggio 2007.

Quello che a mio avviso doveva essere la presentazione di un lavoro dignitoso e prezioso diventa sfoggio e orgoglio di ‘torbidi’ accademici che promuovono in gran pompa l’evento e come al loro solito si accaparrano meriti, in realtà letteralmente acquistati con i soldi di noi contribuenti. Ma del resto, che dobbiamo fare? Siamo semplici spettatori oggi come ieri di manovre che vediamo ma non ci è dato di capire, se così vogliamo dire.
Da una parte sono felice di non essere stata presente alla prima, in quanto mi sono risparmiata un bel po’ di nervosismo… lo posso supporre da quello che hanno raggiunto solo le mie orecchie. Comunque.

Subito dopo aver ritirato il mio biglietto grazie al gentile interessamento del pur sempre valido Massimiliano Maria Frascà (da notare le comunanze fonetiche col nome del Grandissimo Volontè) entro e raggiungo il mio posto. La scena è agghindata ‘alla Brook’ e questo già solletica il mio fastidio.
Attendo e attenta ausculto la partenza…
Un vegliardo si palesa… (per un attimo mi è sembrato di essere alla prima di Memorie di Adriano all’Argentina… Ma vi assicuro che il pro-rettore è capace di deliziarci assai dippiù che Giorgione)
I vegliardi nelle parti di Egeo e Teseo spiccano oltre che per l’età e per l’ingiustificata presenza anche e soprattutto per il loro fare e stare sulla scena come è consono al dopolavoro o la parrocchia se preferite. Il primo, alla storia Piero Marietti, il secondo nella parte di Egeo Boh? In quanto, la brochure lo denota come Bruce Myers ma posso affermare con estrema certezza che non era affatto lui.

Una piccola digressione sul ‘lavoro alla Brook’.
Almeno, quello che la mia esperienza mi ha insegnato, è che il Loro è un attento lavoro sul testo, il quale parla e dice tutto ciò che in scena dovrà essere. Le parole, non sono poi così ambigue, il loro posizionarsi all’interno del periodo insieme alla punteggiatura, narra tutto ciò di cui la messa in scena necessita.
Il lavoro con gli attori è, direi volto a far affiorare le peculiarità personali, ad uso e costume del testo. (pazientate, tornerò su questo punto)
In questo caso poi mi permetto di dire con ovvietà che a Shakespeare non gli dobbiamo insegnare proprio niente e che il ‘Sogno’ non può non girare.
La regia è… (lo posso dire?), NON E’! Nel senso che non interviene, almeno per ciò che io ho veduto, cura semplicemente i dettagli.
Ma veniamo allo specifico.
Lo spettacolo è mooooolto piacevole e estremamente divertente.
Mi soffermerò solo su alcune cose però:
La compagnia di Peter Quince, il quale entrando ha l’ardire di pronunciare una frase, indicando il palcoscenico, contenente le seguenti parole: “lo spazio vuoto”, suscitando in me, vergogna. Fortunati loro però, visto che la citazione è stata colta da me e poche altre persone in platea.
La Compagnia dei Cafoni intenta nella preparazione della piece da presentare al Duca ha lavorato su dei clichè che sicuramente piacciono ma li trovo molto più cabarettistici che non adatti a questo lavoro, trovo una paraculata quella di usare l’atteggiamento troisesco (passatemelo), in quanto, si, lo sappiamo funziona… E’ passabile solo in quanto impersonate una compagnia di buzzurri, e allora, ci può stare. Altrimenti…
Il mio plauso va a Marco Cipolla, ineccepibile e mirabile Bottom e alla magistrale interpretazione del Muro.
La corte di Titania (Le Fate), le ho trovate belle sinuose e insieme. Ho apprezzato in particolar modo Gheriglio (Gioia Salvatori) per il semplice motivo che essendo a conoscenza delle sue capacità mi ha inorgoglito scorgere la tanta strada fatta.
Puck (Giulia Pietrosanti), la quale, non ce l’ha detto, ma o è un vero folletto o è molto molto brava! Credo la seconda comunque. Tiene conserva e diluisce la sua bella energia per tutto lo spettacolo.
Oberon. I miei complimenti in questo caso vanno alla mamma di Vincenzo Manna, lo so, sono frivola ma ogni tanto ci vuole! Vojo di: Quanto è bello?!
Per contro ho da dire che per me Oberon è un’altra cosa e anche se riconosco a Vincenzo onorabilità e bravura, a me non m’è piaciuto.

Alla fine dello spettacolo io e la mia combriccola avendo diversi legami con diversi componenti della ‘compagnia’ decidiamo di cenare con loro. Dei pesci fuor d’acqua ovviamente!!!
Ma ciò è servito a confermarmi la mia idea del ‘lavoro alla Brook’ sugli attori.
Ho notato che le peculiarità disegnate sopra i singoli personaggi erano disposizioni personali dei singoli attori, accentuate per l’uso.
Forse tutto ciò è risultato molto più evidente a causa della durata lunga ma limitata, con cui hanno avuto modo di lavorare con Bruce Myers, o forse no, non so!? (avevo detto che ci sarei tornata).

In Quanto ho premesso, concludo pure:
Lo so, sono presuntuosa spocchiosa difficile e non mi sta mai bene niente.
Ma fin quando conserverò la facoltà di pensare, non mi priverò mai del piacere di dire.
Mi scuso con chi si è sentito offeso dalle mie parole e giustifico vigliaccamente il mio adire.
Inoltre, onestamente vi dico, che mi sono molto divertita sia ad assistere allo spettacolo ieri, ma anche e soprattutto a scrivere questo post oggi.
Vi amo tutti.
Gio-rgia
 
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Thursday, May 10, 2007
'Les Bonnes' di Jean Genet regia di Giuseppe Marini
Le serve, doppia emanazione di una stessa entità, entrano a sipario chiuso dai lati del boccascena. Le Attrici attraversano l’arco scenico, s’incontrano al centro e si specchiano una nell’altra, subito dopo si aprono e mostrando le spalle al pubblico illustrano le brevi note di regia che Genet ci ha voluto tramandare: “Sacri o no queste due serve sono dei mostri”.
Un omaggio alla carriera di due Pilastri del teatro italiano. La traduzione apposita di Franco Quadri, la scenografia di Chiti, la regia di Giuseppe Marini, tutto affinché la pièce acquisti una valenza simbolica delle esistenze professionali delle due interpreti.
Tratta da un fatto realmente accaduto, l’opera contestualmente a Genet è carica di tratti autobiografici, di sdegno per una società che lo rifiuta, di odio che sfocia dall’amore per una condizione negata che si manifesta attraverso un divario tra ciò che è e ciò che sembra, lasciando all’apparenza il compito di svelare il suo opposto e autenticarlo.
La scena è fastosamente vestita a lutto, presenti solo, un’enorme specchio deformante, un funereo letto e fiori, pendenti, sulle teste degli attanti.
“La recitazione deve essere furtiva…” La Valeri e La Guarnieri inscenano come ogni sera il loro masturbatorio rituale in assenza di Madame, scimmiottandola con una magistrale misura, talmente assorbite dall’erotico gioco da spingersi fin oltre il divertimento, rasentando la follia e sfiorando il terrore, finche lo scadere del tempo disponibile non coincide con il limite estremo del loro depravato gioco. La signora rientrerà a momenti. A marcare il termine è il rintocco di un’enorme sveglia che scende da una cantinella, seguiranno una chiave e la cornetta di un telefono, per sottolineare le esigenze del testo, grandi tanto quanto la ‘statura artistica’ delle interpreti.
Gli oggetti di scena sono assimilabili per qualità e fattezze alla disneyana “Alice nel paese delle meraviglie” così come i costumi delle Serve ricalcano in una versione cinerea il di Lei turchino; una favola nera.
L’ingresso di Madame è monumentale, la sua apparizione esplode in un fragoroso applauso; dal fondo del boccascena procede lenta una mastodontica struttura, il suo abito: un’enorme meringa tempestata di lumini accesi. Il suo avanzare accentua il divario tra le altezze mettendo sotto scacco Solange (Franca Valeri) mesta e immobile in proscenio. Il loro fermarsi sullo stesso piano prospettico rende perfettamente sulla scena l’essere assoluto e relativo di Madame, che si sostanzia e concretizza solo attraverso le dirette emanazioni di se (le serve/l’Altro).
Madame, nell’interpretazione della Mulas, si alterna di toni perentori, svenevoli, frivoli, lucidi, tanto più voluttuosi quanto più si addentra nella descrizione sadica e partecipata delle ipotetiche sofferenze patite dal Signore nella sua prigionia.
Rientra in scena Claire, per compiere attraverso la somministrazione di un avvelenato infuso, l’impresa che Solange ha fallito precedentemente: uccidere Madame.
Il sapore è quello della liturgia, il ‘SACRO GRAAL’ contenente il veleno, verrà soltanto sfiorato dalle mani di Madame, nel suo delirio di dolore e passioni per la ‘perdita’ dell’amato, finche un gesto e un oggetto non tradiranno le bonnes, portandole a confessare la buona nuova, l’avvenuto rilascio del Signore. Madame accorrerà tra le sue braccia e le due rimarranno di nuovo sole tra le loro reciproche e morbose puzze, accusandosi vicendevolmente d’inettitudine e disperate per l’imminente fine.
Il ‘SACRO GRAAL’ rimarrà in scena in primo piano, fin quando Claire non deciderà di liberarsi, liberando Solange e regalandole inoltre la notorietà per una falsa accusa di omicidio e berrà il veleno.
Lasciando finalmente il dovuto spazio, fin troppo, all’arte della Valeri, che si dilunga in un monologo, in cui Solange pregusta col suo vaneggiamento la fama. La sua recitazione è puntuale perfetta, fin troppo dentro il disegno di un’impropriamente detto personaggio. Per farla breve, avremmo preferito che prendesse lei in mano quel enorme emblema, il telefono, per deliziarci ancora e di nuovo con la Signora Cecioni.
Lo spettacolo seppur pieno di interessanti perle risulta noioso e freddo, divertente in maniera assolutamente discontinua, senza mostrare interesse per una riattualizzazione di senso dell’opera.
La regia di Marini minuziosamente attenta al gesto dell’attore ci regala una visione comunque piacevole.
Ciò che però è assai più piacevole è l’agghindo della vipperia presente alle prime del Teatro di Roma. Mi permetto di sottolineare stavolta, in assenza della beneamata, Rosanna Cancellieri Visone e Mamma-munita, la scarlatta presenza della tiratissima Marina Ripa Di Meana, con un perfetto pendant di cinta e caschetto.
 
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Wednesday, February 07, 2007
'Garrincha, l'angelo dalle gambe storte.'

Continua al Teatro dell’Orologio “Narratori”, la rassegna di teatro di narrazione di ‘CinqueAnelliTeatro’. Per il terzo anno consecutivo la compagnia propone vecchi e nuovi spettacoli noncurante della polemica in atto sul teatro di narrazione e il teatro inchiesta.
E lo posso dire? Fanno bene.
La sterile ‘querelle’ riguarda la riflessione sulla definizione dell’evento teatrale, lo schieramento politico del narratore che investe e convince la platea, l’affermare che questa modalità espressiva non è affatto una novità, la banale accusa a performance di questo genere di essere così facilmente vendibili da renderne naturale e agevole la diffusione e quindi la notorietà, e il fatto che da qualche anno a questa parte, da Baliani e i vari Paolini, Celestini, Enia, mi perdonino le altre eminenze se non le ho citate, diciamo che è diventato un vero e proprio genere, quindi una moda. E come tutte le mode destinate a passare, e per tanti è giunta anche l’ora.
Mozioni irragionevoli che non prendono in considerazione l’unico fatto concreto: questo genuino filone raccoglie ancora un sacco di pubblico, allora, dunque perché estinguerlo prima che la ‘corrente’ si esaurisca da sola?
Una storia appassionata è sempre piacevole da ascoltare. L’argomento della trattazione diviene secondario attraverso l’entusiasmo dell’attore, che lo colora di sfumature tanto vivaci da renderlo apprezzabile anche agli occhi di uno spettatore indifferente al tema.
Questione di urgenza? Sentimento? Di bravura? Mah?! non mi interessa.
Io, che aborro il calcio, l’altro ieri ero all’Orologio a commuovermi per la storia di un calciatore:
‘Garrincha, l’angelo dalle gambe storte’, al secolo Manoel Francisco dos Santos.
Franco Valeriano Solfiti autore e attore dello spettacolo, per la regia di G. Fares, ci racconta la storia di un uomo che deve al calcio la notorietà tanto quanto la disgrazia.
Dati gli odierni e vergognosi fatti di cronaca, l’attore sarebbe potuto scadere in una digressione a proposito della violenza negli stadi e della corruzione, ma si è limitato ad accennarla soltanto, ed io personalmente, ho apprezzato.
Novanta minuti separano due fischi, uno di inizio ed uno di fine, non di una partita però, di una storia, della storia.
Solfiti prende spunto da una disputa tra i quartieri romani di Trastevere e Testaccio risolta con una partita di calcio e partendo dal dilemma del ‘miste’ su chi mettere in campo, e ci illustra in maniera pittoresca i ruoli dei giocatori: il portiere ‘ragno’,il muro innalzato dalla mediana, la punta che come un ariete deve sfondare la difesa e segnare, fino ad arrivare all’ala destra, ruolo defilato ma decisivo che introduce l’argomento principe: Garrincha, la più grande ala destra di tutti i tempi.
Cito: ” Una vita intera passata in quella zona del campo dove non esistono regole, dove l’unica regola devi essere tu, ai margini di quella linea bianca che separa il mondo da te: la folla dal singolo, il razionale dalla follia, la morale dal cuore, la prosa dalla poesia.”.
Manè Garrincha nasce con una grave malformazione alle gambe e la poliomielite contratta da bambino lo relega per tutta la vita ad una condizione mentale infantile. Lui vuole giocare a calcio, semplicemente, così dei suoi conoscenti lo invitano a partecipare ai dei provini per entrare in una squadra, al primo verrà scartato, perché si presenta senza scarpe, al secondo la carenza numerica dei candidati gli offre la possibilità di mostrare le sue capacità. Con la sua andatura claudicante, entra in campo: il Botafogo, squadra provinante, si rende subito conto che proprio quel difetto fisico gioca a suo favore, quelle gambe, dispare e deformi gli danno la possibilità di rendere incomprensibile all’avversario la sua finta. Inutile dire che viene subito ingaggiato. Fa vincere il vincibile alla squadra e regala alla sua nazionale due vittorie mondiali. Sarebbe potuto essere il calciatore più ricco del Brasile, ma a lui interessava solo giocare, e durante tutti gli anni di servizio, firma contratti in bianco, a causa del suo candore e la sua buona fede, senza esser mai regolarmente remunerato. Si ritira nel 1973 dopo un incidente d'auto ed un crudele calo di rendimento, dieci anni dopo muore in solitudine, povero e sopraffatto dall'alcool. Solo allora il Brasile si rende conto di aver dato troppo poco ad uno dei suoi figli che invece ha fatto molto per la sua nazione.
Solfiti ci racconta Garrincha con tutta la tenerezza necessaria alla storia, rendendo leggera attraverso la poesia, la drammaticità di questa vita; in scena è accompagnato dalle percussioni di Pietro Petrosini che sottolineano le atmosfere e i personaggi. I due performer risultano visibilmente sotto tono, ma ciò non toglie nulla alla godibilità del valido spettacolo.


Gio'-rgia

 
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Friday, November 10, 2006
"Le figurine mancanti del 1978"

Anno 1978. Due attori sulla scena, Il bigio Vincenzo Occhionero e lo pseudo bambino Dario Aggioli si impegnano a farci vivere quell’anno, il primo facendocelo assaporare storicamente per poi arrivare alla dittatura in Argentina; il secondo ci racconta il primo mondiale a colori. Una contrapposizione cromatica, bianco e nero per la cronaca e colori, tutti, per l’esposizione calcistica; questo è il presupposto registico su cui dovrebbe reggersi lo spettacolo.
L’improvvisazione è uno dei principi fondanti della poetica di Teatro Forsennato. Causa che appoggio in pieno, avendola sostenuta in prima persona fino a pochi anni fa. Sono fermamente convinta che la spontaneità è una valida modalità di creazione, che dà una bellissima freschezza ai prodotti e che, se si verificano le migliori condizioni, fa divertire in eguale misura, pubblico e attore; ma non può supportare qualunque genere di spettacolo. Funziona sicuramente per ciò che riguarda semplici intrecci, ma uno spettacolo “inchiesta” che si fa carico di sollevare gravi questioni, necessita di una trattazione che va ben oltre ciò che ho visto nelle “Figurine mancanti del 1978”.
Non vivo il dramma delle madri a Plaza de Mayo come non sento l’orrore di un trentenne che si scopre figlio “adottivo” dei carnefici dei suoi veri genitori e non provo una rabbia atroce per le esecuzioni sommarie. Non solo, finito lo spettacolo ricordo a malapena chi lo ha vinto quel Mondiale!
Il tutto è gettato là. Mi si racconta l’indifferenza che ha caratterizzato il mondo di fronte ai ‘giochi di prestigio’ della dittatura argentina e rimango a mia volta indifferente. Se avesse voluto essere semplice intrattenimento ci avrebbe raccontato la storia di due innamorati, e saremmo usciti da teatro tutti felici e contenti! Invece io sono uscita annoiata e senza nuovi elementi di riflessione. Se si scomodano determinati argomenti gli si deve dare lo spazio e l’intensità che meritano, se no, si lasciano nel loro oblio.
Non sto chiedendo ad uno spettacolo teatrale di colmare le mie lacune storiche e calcistiche, gli sto muovendo una semplice accusa: la superficialità. Ammesso e non concesso che tale genericità di trattazione sia una cifra stilistica, non posso e non voglio credere che sia lo stesso per le emozioni evocate e per la resa del prodotto finale. E’ necessario ricercare la perfezione in un prodotto artistico, e questo ha bisogno di moltissimo lavoro, a maggior ragione se non ci si affida ad un testo scritto. Purtroppo io, non ho visto due attori respirare insieme e non li ho visti forti e sicuri di poter attingere ad un ricco bagaglio formato in prova; tutto ciò era evidente dal loro stato emozionale, dall’ansia di lasciare dei vuoti e dalla ripetitività delle gag.
Bisognerebbe aprire troppe questioni per commentare questo spettacolo.
Quella sul metateatro che forse rompe la tensione e l’incanto; sull’esigenza di ritmo; sull’indispensabilità di un climax; sul fatto che il pubblico ha bisogno di ridere o di piangere o di indignarsi, di pensare o non pensare ma di emozionarsi…
Sono sicuramente molto presuntuosa e inclemente ma sono altrettanto stanca di ricercare sempre le attenuanti del caso e sono arrabbiata con lo svilimento dell’arte teatrale. Che non si deve scambiare per ciò che non è. E vero, il teatro risponde in primo luogo alle esigenze edonistiche di chi lo pratica, ma troppo spesso questo diventa il fine ultimo, incurante della validità dei mezzi con cui lo raggiunge.


 
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Tuesday, October 24, 2006
Klaus



Giovedì 19 ottobre 2006

Hotel de la lune
“Klaus”
Devozioni VII

Un viaggio apparentemente senza speranza, l’ultima devozione di Gian Maria Tosatti.
Immersa nella splendida cornice di Villa Aldobrandini in un piccolo stabile ad uso magazzino del Rione Monti, questa istallazione apre un lugubre immaginario. Trae le sue suggestioni oltre che dal luogo, facendo fede alla poetica del gruppo, dal capolavoro di Carrol, da “Klaus”(?) e dalle inondanti sonorità dei Pink Floyd.

Attraverso delle scale ancora all’aperto si accede ad una piccola porta di ferro: inizia il mio viaggio! Una, due buie ripide rampe di scale mi costringono ad una incerta quindi lenta discesa, necessariamente coadiuvata dal metallico corrimano; in fondo, una stanza malamente illuminata dagli sporchi vetri di una grande finestra. Sono dentro quella che fu una classe, la radio sulla cattedra e l’icona bizantina rimandano all’idea di una artificiosa vigilanza. L’unico attore dell’ istallazione (Tommaso Gravini) si palesa, poco rassicurante, attraverso due varchi uno sopra l’altro, sulla parete di fondo.
Nell’altro ambiente, ci sono due grandi tinozze colme di vecchi giornali, una sfera di pietra a terra, sotto un enorme cratere nel solaio che l’umidità, con una maestria inimmaginabile, ha disegnato circolare è la stanza dei cerchi. Qui, un mucchio di calcinacci mi indica la via ad una scala a chiocciola; nel passaggio per raggiungerla dei cerini incoraggiano l’avventore. Armata di fioca luce, mi accingo ad entrare. La breve durata del fuoco scandisce la mia salita, l’ambiente è umido e claustrofobico. Un abbaino ovale, oltre ad evitare che io abbia un malore, consente la visuale della stanza dei ‘cerchi’, mi fermo, osservo ma c’è ancora da salire…

Viaggio senza speranza, dicevo, ma a torto. L’immaginario mortifero di Tosatti stavolta lascia un piccolo spiraglio nelle morbide forme del secondo ambiente. E allora si è di nuovo disponibili, in questo caso, a un altro pugno nello stomaco.
Ma non è l’emozione che si vuole evocare la cosa importante. Sebbene in una creazione non si debba necessariamente andare incontro al gusto di chi guarderà, ciò da cui non ci si può esimere è considerare i limiti di fruibilità. L’equilibrio dell’opera non è sottovalutabile. Nessuno certamente può avere coscienza della sensibilità del singolo, lo sforzo che si deve fare, allora, è presumere dei limiti di sopportazione. Valori massimi quindi, non assoluti, che rispettino parametri generali ai quali ci si deve attenere.
Una visione questa “Settima Devozione”, il cui punto di vista è inequivocabilmente fornito dall’autore e i rimandi invece soltanto suggeriti. Il coinvolgimento non è fattivo, ma di pensiero: ci si incontra in un luogo ideale e si diventa coautori di un’opera unica e personale di cui Hotel de la lune è solo il medium.
.
Ho apprezzato il lavoro di quello che definisco un visionario mestierante che dà una parola, una delle tante possibili , ai luoghi e al tempo che li ha attraversati.
 
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Monday, October 16, 2006
Post uno


Chiariamo: noi giovani tuttologhe-nientologhe dell'effimero, riteniamo di non avere niente di meglio da fare, che passare il nostro tempo libero a scrivere giudizi spassionati e quanto mai arbitrari.
Autorizzate dall'aver pagato caro un biglietto a teatro e dalla nostra proverbiale, quanto ingiustificata sicumera, una volta tornate a casa, sputiamo veleno nella rete, appellandoci alle nostre scarse competenze critiche e ampie competenze criticone.
Perciò, perdonate gli eccessi di acredine e i deliri di onnipotenza ma l'astio accumulato nei confronti di questo mediocre mondo è troppo, per tenercelo tutto per noi, quindi, in attesa di trovare un lavoro regolarmente retribuito, regaliamo ARIA FRITTA (pensate quanto siamo generose!).
Per sempre vostre,
Giò e Gio'.
 
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